27/08/17

Il Vangelo secondo Buddha – amare i nemici



Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 5,38-48)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle.
Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».

COMMENTO

Questi versi del Vangelo, inutile nasconderselo, sono i più ostici da capire e da accettare. Cosa pretende questo Dio cristiano dagli uomini? Mi derubano, mi picchiano, mi offendono, mi incarcerano senza colpa, mi diffamano e alla fin fine mi uccidono. Come posso “amare” questa gente? Come può essere vero che Gesù ha insegnato cose come queste? Che senso ha un insegnamento simile? E come può c’entrare questa passività masochistica con il Buddhismo?
Vediamolo
Chi ha anche solo un’infarinatura del Buddhismo molto superficiale, indubbiamente sa che la base del Buddhismo sono le quattro nobili verità. Esse sono:
La Verità del dolore
La Verità dell'origine del dolore
La Verità della cessazione del dolore
La Verità della via che porta alla cessazione del dolore
Di queste la più importante da comprendere è la seconda.
L’origine del dolore è dato dall’attaccamento: il "dolore" non è colpa del mondo, né del fato o di una divinità; né avviene per caso. Ha origine dentro di noi, dalla ricerca della felicità in ciò che è transitorio, spinti dalla sete, o brama.
Cos’è l’attaccamento? E’ tutto ciò a cui non siamo capaci di rinunciare e che opera in noi in modo compulsivo.
Cosa è dunque la sofferenza? E’ attaccamento a cose, persone e concetti.
Una delle più radicate idee e concetti che come esseri umani abbiamo è quella di essere nel “giusto” e di fare il “bene”. Tutti ci sentiamo e ci preoccupiamo di sentirci, “giusti”. Giusto è il nostro pensare, il nostro agire, i nostri valori...e così via. Ovvio che per differenza chi ha valori, idee, concetti opposti ai nostri, sia da noi giudicato “non giusto”. Coloro che hanno valori opposti ai nostri non sono nostri amici, anzi spesso sono nostri nemici. Poichè vogliamo che si affermi la “giustizia” ecco che proveremo molta poca simpatia per chi ha idee opposte alle nostre e saremo molto facili a provare diffidenza, poi fastidio, ed infine odio per chi a nostro giudizio “avversa” le nostre idee.
Ma l’odio, così come anche l’avversione e il fastidio, sono sentimenti che fanno stare male, molto male. Sono qualcosa che non porta alla felicità….è una cosa che ognuno di noi sa.
Cosa accadrebbe se “imparassimo” ad amare i nostri nemici? Che per noi tutto ciò che esiste sarebbe positivo e non avrebbe il potere di creare sofferenza. La nostra felicità diventerebbe non più ancorata a qualche “ragione” che si poggia sulle nostre idee digiusto e sbagliato , ma sarebbe incondizionata e quindi stabile ed inscalfibile.
Questo è proprio ciò a cui tende il buddista: alla perfetta e non scalfibile beatitudine. Al Nirvana. E questo è anche lo “stato d’essere” della Divinità, che nulla può turbare.
L’esortazione di Gesù è quindi di innalzarci alla stessa natura della Divinità: “Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste». “, così da non avere più “cose” dentro la nostra mente che potrebbe portarci ancora alla sofferenza.
Sincretismo Olistico - Elitheo Carrani - 27/08/2017

18/11/13

AFFRONTARE IL NOSTRO INFERNO

Quando la nostra vita scorre serenamente ci sentiamo in pace con noi stessi è ci illudiamo di aver trovato il giusto equilibrio... ma per sapere se veramente il nostro equilibrio sia vero e solido dobbiamo attraversare “l'inferno”. Solo l'inferno può dirci quanto sia vero il nostro equilibrio e quanto paradiso c'è in noi. (l’effimera)
Questo concetto è denso di verità. Essere sereni quando tutto o quasi va bene è fin troppo facile…Salute, lavoro, famiglia, tempo per divertirsi, vacanze e gite, soddisfazioni sul lavoro, energia e voglia di fare. La vita sorride e ci sorride. Se non si riesce ad essere in pace con se stessi in queste condizioni, allora abbiamo davvero qualcosa che non va. Ma non sempre è così, anzi non lo è quasi mai. Malattie, problemi, genitori anziani e malati, figli conflittuali, mancanza di lavoro, persone problematiche con cui abbiamo a che fare, incidenti, imprevisti, problemi relazionali, mancanza di soldi… La gamma delle cose che possono non andare bene nella vita è molto vasta. Se ognuno dovesse decidere di essere sereno ed in pace, felice, quando tutto questo dovesse andare bene, secondo i nostri desideri, nessuno sarebbe felice, Se non forse per pochi attimi, qualche anno per i più fortunati. La domanda viene naturale: tutta qui la vita? Se usiamo questo schema per valutare la vita, ne avremo molte di delusioni. Garantito. E ne perderemmo davvero il senso. In verità ciò che noi vogliamo e desideriamo dalla vita, ciò che agogniamo che bramiamo, lo decidiamo noi. Siamo noi che poniamo i paletti della nostra soddisfazione e felicità. Siamo noi che decidiamo che se non facciamo quel lavoro abbiamo fallito, che se non raggiungiamo quel reddito non siamo di valore, che se non abbiamo non solo una salute perfetta, ma anche un perfetto look, non siamo “ok”. Tutte queste cose ci mettono nella condizione di non essere mai sereni. Ma la vita spesso ci presenta il conto e lo fa come un ristorante extra lusso…. Spesso ce lo presenta salatissimo. E comincia l’inferno. Succede quando una diagnosi ci dice quella cosa che non volevamo nemmeno pensare; succede quando il responsabile del personale ci dice che non hanno più bisogno di noi; succede quando chi contavamo di avere a fianco per sempre, ci dice che è finita. Succede quando ci viene portata via una persona fondamentale nella nostra vita. A questo punto abbiamo una scelta secca: o rifiutiamo la croce che ci è capitata addosso o la accettiamo. Altro non possiamo fare. La maggior parte comincia a lottare: per la sua salute o per quella dei suoi cari, per il nuovo lavoro che si deve trovare, per recuperare una persona che ci abbandona o per trovarne un’altra. Ma combattere è sempre una sofferenza….ce la farò? Non ce la farò? Tornerà o non tornerà? Devo fare questo devo fare quello, devo riuscire, devo farcela. Ed ansia e preoccupazioni e dolore. A volte ci si riesce, almeno parzialmente, altre volte no, le circostanze sono avverse, completamente. Succede quando il male è inesorabile, quando il lavoro non c’è proprio più, quando non siamo più amati da chi vorremo ci amasse. Quando questo avviene…si perde. E si sprofonda...giù, giù, giù. Poi ci si ferma. Non c’è più nulla da fare. Abbiamo perso. Siamo in fondo al pozzo….e le pareti sono inscalabili, lisce e scivolose, troppo lisce e troppo scivolose. E’ l’inferno. Tutto ciò che potevamo fare è stato fatto. Smettiamo di combattere. Cosa ci resta? Accettare. E andata così, va bene anche così. Ecco l’illuminazione: va bene ANCHE così. Va bene così. Fine della guerra….E una scala scende dalla cima del pozzo. Abbiamo trovato un gancio in mezzo al cielo. Ora nessuno potrà più distruggerci. Siamo andati Oltre. La felicità. Comunque.

29/10/13

LA VIA VERSO LA LIBERTA' PSICOLOGICA E SPIRITUALE

La via verso la libertà psicologica e spirituale ha come obiettivo la divinità-salvezza (salvezza ha la stessa radice di salute). Ricordiamoci che Gesù disse “siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli.” Quindi l’obiettivo è ambizioso: essere come Dio, essere in Dio. Ma questa via si può percorrere se è la via del Cristo, cioè attraverso l’umiltà e il raggiungimento di una stabile capacità di armonia con sé e gli altri, in un parola Amore. Via che è anche la via del Buddha, di Sri Aurobindo e Mère, di Babaj, Yogananda ecc. Per intenderci non è la via di Nietzsche né quella di Rasputin. Ora se l’obiettivo è addirittura Dio, va da se’ che Dio non ha ( o non dovrebbe avere) dubbi, angosce, paure, risentimenti, depressione, panico. Né dovrebbe avere problemi a fare miracoli, o ad amare tutto il creato. Quindi per logica, passo passo, la via che ci è chiesto di intraprendere è quella che porta lì, a quei livelli. Possiamo non riuscirci? Certo, ma ciò che conta è la direzione che si prende e non dove si arriva. Perché fino a quando la direzione non è definita…si rischia di perdersi. Per cui ogni nostra “menata” mental-psico-esistenziale, è appunto una “menata” per quanto ce la raccontiamo in termini gravi e pomposi. Il nostro obiettivo deve essere e deve rimanere scrollarci di dosso la sofferenza psichica e raggiungere una felicità, una fiducia, e una sapienza piena e pura. Dio quindi non è il Giudice severo dell'Antico Testamento, ma una Guida Spirituale che vuole che si diventi come Lui: perfetti. E questo è tutto ciò che vuole. Farci tornare alla Fonte.

31/07/13

LA SOLITUDINE

La solitudine è uno stato d'animo, nè più nè meno come l'ansia, la rabbia, l'angoscia. Sentirsi soli è appunto un "sentirsi" e questo sentirsi ha in sè un non detto che dice "è brutto e triste essere soli" per cui quando capita, non tanto di essere soli ma di "percepirsi" soli, si attiva quel "è brutto e triste essere soli" e si sperimenta il dolore. E questo può accadere anche se si è circondati da altre persone. Mentre se si è felici, la solitudine è pensata come "sono libero di fare ciò che voglio" e la si associa alla libertà. Come si vede è tutto un percorso soggettivo e puramente mentale. Non c'è nulla di oggettivo....e come sempre la felicità alla fin fine è scelta nostra....

30/07/13

LA PSICOANALISI DEL BUDDHA E IL PECCATO ORIGINALE

Questo è il titolo del libro che ho scritto. Come potete constatare ho voluto mettere già nel titolo il riferimento al Buddhismo,al Cristianesimo e alla psicologia. E c'è ovviamente una ragione. Il Buddismo è prima ancora che una religione, una via alla liberazione personale. Questo è chiaro a chiunque ne abbia letto anche solo superficialmente.Chi confonde i riti popolari del Buddhismo religioso con la speculazione e riflessione della filosofia buddhista, dimostra di non averne compreso lo spirito e la sostanza. Chi invece ha letto anche superficialmente qualcuno degli autori usciti dalla corrente culturale nata da Freud e dalla sua psicoanalisi, sa altrettanto bene che dall’originario “focus” sulla psicopatologia, la psicologia, la stessa psicoanalisi e molte psicoterapie si sono avventurate al di fuori del concetto di “patologia” per approdare alla considerazione dell’uomo e dei suoi modi di percepire e pensare, di affrontare la vita, di considerare i rapporti e le relazioni, come un tutt’uno del suo essere Persona, allargando ed integrando anche i concetti di realizzazione, felicità, senso dell’esistenza. La “patologizzazione” del disturbo mentale, originariamente focus dell'analisi, ha lasciato e sempre più sta lasciando spazio alla visione olistica dell’essere uomini, dove la sofferenza è solo uno degli elementi della vita e del processo evolutivo delle persone. La religione,infine, è finora riuscita, non senza crescenti difficoltà, a ritagliarsi uno spazio autonomo rispetto a questa indagine sull’Uomo tipica della filosofia e della psicologia, grazie all’introduzione del concetto dell’Assoluto, alla presenza di un Vertice cui tutto deve esser ricondotto, e alla malcelata idea che esista una sorta di do ut des tra comportamento nella vita terrena e nella vita dopo la morte. Ma la presenza di Dio nella vita delle persone appare sempre meno come qualcosa di distaccato ed iconografico; meno “idolo” a cui dovere culto e specchiata moralità, e, al contrario, appare sempre più come una Presenza che entra nei più intimi processi mentali e spirituali….... Sempre più viene percepito non solo come “esterno” all’Uomo, Essere con cui intrattenere un rapporto che troppo spesso ha le caratteristiche del potere e del conflitto tipiche degli uomini, fondate sulla base di logiche compensatorie ed utilitaristiche, ma anchecome “interno” al nostro essere, alle nostre dinamiche mentali e spirituali. La più diffusa conoscenza del Vangelo avutasi dopo il Concilio Vaticano II ha enormemente aumentato anche nel mondo cattolico la percezione di un Dio diverso, un Dio del Cuore, un Dio dell’Adesso, che dice non a caso “ il Regno dei Cieli è in mezzo a Voi”. E, paradossi della storia, proprio il Buddismo appare il più solido e strutturato ponte di collegamento tra la filosofia e l’indagine psicoanalitica in senso lato e le religioni in senso stretto dall’altro. Non è certo l’unico, sia chiaro, molto in filosofia è stato scritto e detto per creare ponti verso le religioni, ma il Buddismo è oggi, per diffusione e conoscenza, il più facile da percorrere. Oggi appare sempre meno contestabile il detto di Gesù che affermò: “chi vive e crede in me non morrà in eterno”, spostando la realizzazione piena dell’uomo dal futuro trascendente dopo la vita, all’immanente qui ed ora. Ecco così che l’insegnamento del Buddha sulla natura schiavizzante dell’attaccamento e del desiderio si sia ritrovato in compagnia stretta delle Beatitudini del Vangelo (Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? – Mt:6,25) e al tempo stesso abbia trovato al suo fianco le principali riflessioni sulle dinamiche psichiche dell’ansia ( non ripensate al passato perché non potete più cambiarlo e non preoccupatevi del futuro perché ancora non è…… rimanete nel tempo presente e l’ansia non avrà modo di esistere. L’ansia è solo anticipazione del futuro e la colpa è ritornare a rimuginare sul passato). Queste riflessioni sono state sviluppate ed approfondite nel mio lavoro “La psicoanalisi del Buddha e il peccato originale” (disponibile in versione italiana e inglese) dove le diverse affermazioni all’interno delle tradizioni culturali del Cristianesimo, del Buddismo e della psicologia contemporanea vengono confrontate alla luce delle loro sovrapposizioni.

26/07/13

STIAMO ATTENTI AL PERFEZIONISMO

Il perfezionismo è quell’atteggiamento mentale che urge alla nostra coscienza con la costante insoddisfazione circa la situazione in cui ci si trova. E’ un signore della mente sempre insoddisfatto che vuole sempre che le cose siano diverse, e a suo dire migliori, di quello che sono. La sua vera forza, agli occhi della coscienza, è che se non ci fosse un po’ di perfezionismo, non si riuscirebbe a fare alcuna cosa. E’ in effetti il perfezionismo che ha dato motore a tutto lo sviluppo tecnologico…dalla ruota ai computer…. Solo volendo e ricercando il miglioramento e il perfezionamento siamo stati in grado di sviluppare la tecnologia, la chimica, la farmaceutica, l’elettronica e così via. Ma il perfezionismo che si accredita nelle stanze della mente come un ospite di riguardo per via di questi oggettivi risultati, non ci viene mai a dire che il suo modo di vedere le cose ha il rovescio della medaglia: una costante e sotterranea insoddisfazione. Lui ci fa vedere le cose come sempre perfettibili e quindi manchevoli e cerca di convincerci che tutto deve essere valutato e considerato sotto la sua luce. L’intera società americana ed anche quella europea, ma molto meno, è ossessionata da questa cosa che riversa in tutto. Ecco così che un bambino non può giocare a basket “normalmente” ma deve esser “eccellente” “perfetto” nel suo giocare a basket, così come deve essere perfetto nel suo curriculum scolastico, deve scegliere le scuole “migliori” , a partire dall’asilo e deve avere le migliori performances in tutto. Quello che sfugge a questo signore, Mr. Perfezionismo, è che le persone non sono macchine e processi produttivi, ma esseri che vivono, pensano , amano, soffrono. E che continuare a spingere ad essere sempre più perfetti, a non essere mai soddisfatti ed in pace, genera una continua ansia ed insoddisfazione verso se stessi, verso quello che si fa e verso chi ha a che fare con noi, perché anche loro non sono perfetti, e così su di loro scarichiamo le nostre insoddisfazioni. Come tutte le cose della mente che ti dicono che “non va bene così” anche il perfezionismo produce insoddisfazione, senso di inadeguatezza, frustrazione, rabbia, cattivi rapporti con gli altri. Come fare dunque? Lasciare che tutto venga fatto mediocremente? Certo che no, ma fare le cose per bene, verso gli altri e verso se stessi, non necessariamente significa essere ossessionati dal demone del perfezionismo, ma è sufficiente farsi guidare dalla passione e dall’amore per quello che si fa. Quando si è guidati così, anche l’imperfetto è amato, che sia una cosa da fare o un comportamento da adottare….Si apprezza anche l’imperfezione frutto comunque di una dedizione e di una cura a ciò che si fa. Alla fine è sempre valido il detto del mezzo bicchiere. Il perfezionista vede quello che manca, il migliorista, vede quello che c’è…l’oggetto dell’osservazione è identico, ma cambia il modo di guardarlo….c’è un sì, anziché un no. E fa tutta la differenza del mondo.

19/07/13

ASPETTI PRATICI NELLA DSE

Il prerequisito dell’applicazione della DSE è, come per tutte le tecniche autogestite, quali il controllo del respiro, l’auto analisi, la pulitura dei chakra ecc, è la dissociazione. Per diventare terapeuti di sé stessi, occorre dapprima identificare un proprio sé/io che sia scisso dai processi mentali di cui vogliamo liberarci. Lungi da essere un autoinganno, questa “dissociazione” è invece un primo passo verso una più autentica conoscenza di se stessi, ma le resistenze che la mente fa a questo concetto sono notevoli. Perché? Perché fin dai primi anni della nostra vita ci è stato insegnato ad “identificarci” con tutto ciò che fa capo a quello che noi chiamiamo “io”. Se ad esempio ci guardiamo allo specchio, diciamo senza alcun dubbio “sono io” e non diciamo certo “ quello è il mio corpo”. Ma se ci riflettiamo un attimo e pensiamo a quando ci guardavamo allo specchio a 10 anni e a quando ci guardiamo allo specchio oggi, dire che ciò che lo specchio riflette è lo stesso “sono io” di allora ci riuscirebbe un po’ difficile da sostenere, almeno senza aggiungere “oggi”. In verità quell’io di allora non ha più nulla in comune con l’io di oggi. Oltre all’aspetto, anche le cellule sono cambiate e sono tutte le pronipoti di quelle di allora, quindi anche biologicamente siamo qualcosa di diverso. La parola “io” che usiamo indifferentemente per le due immagini è se ci si pensa, per lo meno una forzatura. In realtà quella “entità” che dice “io” a distanza di decenni, è in effetti una costante che fa “l’errore” di attribuire identità ed uguaglianza a due corpi che non lo sono affatto. Di fatto proietta la sua percezione di “continuare ad esserci” su una realtà materiale molto differente. La stessa cosa che vale per il corpo, vale per la mente. I nostri pensieri, le nostre opinioni, la nostra conoscenza, le nostre emozioni cambiano radicalmente dai nostri 10 anni ai nostri 20-30-40-50-60 ecc. anni, ma noi, come per lo specchio, proiettiamo l’idea di un “io” costante su idee, emozioni, valori, opinioni che sono completamente cambiate. In realtà, e se ci si pensa risulta evidente, ciò che permane nel tempo è quell’entità che “osserva” il mondo della materia e dei pensieri e che continua a fare l’errore di considerare “io” quel materiale della mente e del corpo, perché sente la necessità di dare “consistenza” al proprio “esserci”, al proprio “osservare”. Se io mi trovo ad osservare che una parte dei miei comportamenti e delle mie reazioni sono sgradevoli e non li condivido, è evidente che questi stessi operino fuori dal mio controllo e contro la mia volontà. Se così è, ed è così, come faccio a dire che sono “io”? Sarebbe come dire che se mi viene la varicella o l’influenza, “io” sono la varicella o l’influenza! Sembra ridicolo ma è proprio ciò che comunemente facciamo. Perché quindi la dissociazione è così importante? Per due ragioni. La prima è che è un passo verso la verità. La seconda è di natura “tecnica”. Se usando la DSE si entra in un’esperienza per esempio di rabbia, che è un emozione molto sequestratrice della volontà e tende a “tagliar fuori” la coscienza e l’autocontrollo in modo perentorio, SAPERE e CREDERE che quell’emozione è un corpo estraneo e parassita della mente (e che quindi NON la condividiamo), consente in ogni momento di interrompere l’identificazione e la condivisione di quella rabbia e con ciò riuscire a vederla ANCHE come osservatore distaccato, nello stesso modo in cui vedete sul termometro salire la febbre quando si ha l’influenza. La si sente, la si soffre, la si misura, ma non si “è” la febbre. Così come la febbre la si lascia sfogare, allo stesso modo si può lasciare che la rabbia si manifesti nella mente, tenendola sotto controllo (ad esempio se vi viene voglia di spaccare tutto potete immaginare di farlo ma non fatelo! E’ molto costoso…come minimo. Al limite lanciate qualche cuscino che è innocuo…) giusta, vera e necessaria per aver la forza di entrare nel “problema” e gestirlo con la DSE. Senza questa convinzione maturata sinceramente è meglio non procedere, soprattutto su cose molto coinvolgenti. (per maggiori informazioni: http://dsepersonalcoaching.blogspot.it/)